“L’Abete Bianco” Biopark – Educational farm
Over one hectare of park inserted in a wider ecological context still intact, in which there are many local and wild species of ancient plants and animals in danger of extinction, the organic gardens of the farm, guided tours for schools, groups of children and adults: it is the “L’Abete Bianco” Biopark in Apella, a center for conservation and environmental education of the farm and agritourism, where it is also possible to create educational gardens, workshops, outdoor and indoor games. The name “White Fir” was assigned with reference to the silver fir tree which is a symbol of biodiversity, but also because local historians believe that the name of the place “Apella” derives, as evidenced in old maps, from “La Pela ”with which in the Apennine jargon this plant was called. Through the activities of education, research, conservation and dissemination that are developed in the Biopark, the aim is to inform visitors about the main concepts of natural biodiversity, agro-biodiversity, food security, but also to promote sustainable development actions. , stimulating the reflection and behavior of visitors on food choices, on the use of natural resources, with particular emphasis on cultural aspects and traditions linked to the use of local varieties of wild and cultivated species, practices whose survival is unfortunately at risk .
The didactic project, of a cultural-educational type, is part of the environmental education strategies activated by the farm in synergy with the Tuscan-Emilian Apennine National Park, dedicated to students of all ages and types of school: theoretical and practical training activities on family agriculture, divided into moments in the classroom and on the territory, on the management of an organic vegetable garden and orchard, on the use and properties of aromatic and medicinal herbs, on peasant civilization, on professional agricultural entrepreneurship, on responsible consumption, on knowledge of chestnut supply chain with guided visits to an ancient drying room (metato) with the possibility of activating horticulture actions, cleaning the undergrowth and collecting chestnuts in complete safety, always under the guidance of our operators, as well as mycological excursions and guided tours in the woods . It is also possible to learn about the farm animals: such as donkeys, sheep, cows, Cinta Senese pigs raised in the wild and semi-wild, hens, chickens, geese, ducks and others, in addition to those species that live naturally in the park like squirrels, foxes, pheasants, pigeons and on certain occasions, for the lucky ones, the golden eagle.
The Biopark can be visited by accompanied adults and children, at any time of the year, either independently, following the guided tours inside, or upon request (for groups of visitors and school groups) guided tours can be activated with the owners of the farm and with the possibility of being supported by local environmental guides, with whom the agritourism structure collaborates. In particular, it is common for customers of the farmhouse restaurant to spend some time inside it after lunch or before a meal, which can be accessed with a short walk from the farmhouse restaurant.
A small orchard dedicated to the so-called “minor fruits or forgotten fruits”, such as medlar, rowan, quince, strawberry tree, dogwood, pomegranate, blackthorn and others, was recovered and appropriately integrated within the Bioparco, mainly obtained in hilly marginal areas , which in the past were widely used by local populations as part of a self-subsistence agricultural economy, within a use that was little more than a family one, and which today are still rarely cultivated.
An important section of the Bioparco is also dedicated to the cultivation of medicinal and aromatic herbs which have a vital role to play in improving agricultural production and preserving the biodiversity of the environment.
The land of Lunigiana is, in fact, very rich in edible spontaneous plants and herbs of medicinal and aromatic interest, often used in the preparation of the tasty dishes of the Lunigiana culinary tradition, such as the characteristic “herb cake”. In the Bioparco it is possible to find a selected collection of these plants, mostly indigenous, such as borage, marjoram, dandelion, rosemary, wild thyme, wild sage, and more chives, chamomile, wild fennel, santolina, helichrysum and lavender. There are also organic vegetable gardens, in other words small plots obtained on terraces (recovered with great skill through the restoration of dry stone walls) within the park where the vegetables used by the farm are grown for the preparation of many traditional Lunigiana dishes.
The educational farm
Il Pollaio
Il nostro territorio è sempre stato terra di avicoltura: polli, tacchini, oche e anatre sono da secoli allevati nelle aie delle case di campagna….
L’Asino, un animale prezioso
La storia dell’uomo è sempre stata accompagnata dalla presenza degli animali. I primi ad essere allevati, circa undicimila anni fa, furono…
Il mondo delle Api
L’ape è un insetto sociale che vive in una colonia chiamata alveare. L’apicoltore offre alle api, in cambio dei loro prodotti, una…
La Pecora zerasca
La pecora (Ovis aries) è un mammifero della famiglia dei bovidi, genere Ovis. Si tratta di un animale addomesticato in…
I Piccoli Frutti
Il sottobosco è un luogo ricco di tesori spesso sconosciuti, qui dove il sole arriva ad accarezzare il muschio e le felci, e tutta la vegetazione…
Il Giardino delle Erbe
Alle erbe officinali e aromatiche va riconosciuto un ruolo vitale nel migliorare le produzioni agricole, la disponibilità di cibo e…
L’orto dei Frutti Dimenticati
Per “frutti dimenticati” si intendono quelle produzioni arboree frutticole quali nespola, sorba, pera volpina, mela cotogna,corbezzolo, corniolo…
L’Orto biologico del “Prete”
Coltivato da generazioni di monaci, prima, di preti poi, questo terreno, originariamente di proprietà della Chiesa come l’antica…
Il Pollaio
Il nostro territorio è sempre stato terra di avicoltura: polli, tacchini, oche e anatre sono da secoli allevati nelle aie delle case di campagna. Attualmente si tratta soprattutto di allevamenti industriali, ma tale tradizione affonda le radici nel piccolo allevamento ad integrazione del reddito familiare. In questo contesto il re è certamente il pollo, ma ruoli importanti erano anche rivestiti da altri animali per i quali erano presenti razze tipiche e locali come l’oca Romagnola, o l’oca della Val di Chiana. Tuttavia molte di queste sono, almeno ad un primo esame, scomparse. A questo proposito, fra le razze degli animali domestici, quelle avicole si trovano maggiormente in una condizione di pericolo di estinzione. Infatti, la moderna avicoltura ha sostituito gli antichi ceppi con degli ibridi (definiti ibridi commerciali) da carne o da uova in grado di garantire la massima produttività. Tuttavia queste nuove “razze” hanno cominciato a mostrare segni di cedimento o gravi manchevolezze (soprattutto sotto il punto di vista della qualità della carne). Inoltre, essendo stati creati per essere allevati in situazioni controllate (capannoni con regolazione della temperatura od in batteria), questi ibridi mal si adattano a situazioni più naturali. Diversamente, antiche razze rustiche come, nel caso delle galline, la Padovana (Veneto), la Romagnola (Emilia Romagna), la Livornese (Toscana), l’Ancona (Marche), la Monnezzara (Campania), la Siciliana (Sicilia), per la loro vitalità e resistenza alle malattie, sono in grado di adeguarsi ad una zootecnia rispettosa dell’ambiente e del consumatore. Inoltre, non essendo state selezionate per la velocità di accrescimento, sono in grado di fornire carni con caratteristiche qualitative che possono costituire un elemento forte per la qualificazione e la tipizzazione del prodotto. Da qui il tentativo di recupero e rilancio di alcune delle sopravvissute razze rustiche locali per lo sviluppo di un’avicoltura orientata al benessere animale e alle produzioni tipiche di qualità.
La gallina livornese
È opinione diffusa che la Livornese sia una razza che derivi da un pollo che veniva comunemente allevato in Toscana e nell’Italia centrale. Il nome Livorno deriva dal porto toscano da cui questa razza è partita per essere importata nell’America del Nord intorno al 1828-1829. Il pollame toscano era infatti molto rinomato per essere curato più che in altra regione d’Italia (Ghigi). Dagli Stati Uniti dopo vari incroci, la Livornese è stata esportata in Inghilterra ed in Danimarca. Da questa razza sono stati poi selezionati gran parte degli ibridi commerciali da uova. C’è da dire, comunque, che almeno fino alla fine dell’ottocento la razza livornese non sempre veniva distinta dalle altre tipiche dell’Italia centrale come la Valdarno. Spesso si parlava di razza “comune italiana” (Casella 1879). Con ogni probabilità con questa dizione venivano indicati quei polli tipici dell’Italia centrale le cui caratteristiche erano già state descritte da Plinio il Vecchio nel I sec d.c. e che possono essere così riassunte: piumaggio nero o rosso nero, zampe e becco giallo, cresta rossa ed eretta, orecchioni bianchi e grandi. Tutte caratteristiche riscontrabili ancor oggi nell’odierna Livorno ed anche nella Valdarno ad eccezione del colore delle zampe che in questo caso avevano una tonalità scura. Le varietà in cui oggi viene distinta la Livornese sono innumerevoli, basate in gran parte sul colore del mantello (Bianca, Nera, Dorata, Fulva, Argentata, Macchiettata ecc). In modo particolare la varietà a mantello nero, avendo avuto una minore diffusione per il suo carattere selvatico, è diventata assai rara e ricercata. La livornese è una razza tipicamente ovaiola. Gli ibridi che da essa derivano raggiungono tassi di deposizione estremamente elevati (300-320 uova all’anno). Tuttavia il recupero delle forme originarie di questa razza è orientato prioritariamente alla produzione di carne dalle elevate caratteristiche organolettiche da effettuarsi in allevamenti all’aperto in grado di assecondare questa caratteristica e rispettosi del benessere animale
Le oche
L’allevamento dell’oca è praticato fin dall’antichità in Mesopotamia e in Egitto (Oca selvatica Anser anser) e nell’Asia orientale (Oca cignoide Cygnopsis cygnoides). In particolare, era molto diffuso nelle campagne della Pianura Padana. Generalmente ogni famiglia colonica possedeva un cosiddetto “giuoco d’oche”, gruppo composto da un maschio e tre femmine in grado di fornire in modo regolare e tempestivo uova secondo la volontà dell’allevatore. Tra le razze rustiche locali si ricorda l’Oca Romagnola che è la razza italiana originaria dell’Emilia-Romagna (l’attuale Standard Italiano Razze Avicole (1996) propone come nuova denominazione il termine di “Oca Italiana”), l’Oca Piacentina, l’Oca Pezzata Veneta e l’Oca di Toscana.
Le anatre
Sembra da notizie storiche che la domesticazione dell’anatra abbia avuto origine in Asia, dove questo palmipede veniva utilizzato nelle risaie per allontanare i numerosi insetti e i semi di erbe nocive. L’anatra domestica è una specie selezionata, probabilmente derivata dal germano reale e altre specie anche americane. Con anatra selvatica solitamente si intende il Germano Reale. Tra il maschio e la femmina è presente un dimorfismo: il maschio ha un piumaggio con colori molto appariscenti: il capo verde scuro, il petto nocciola rossiccio, un sottile collarino bianco e becco giallo; la femmina ha invece colori poco appariscenti che servono per confonderla fra la vegetazione durante il periodo di cova. Vivono comunemente negli stagni e nei laghi nutrendosi di cibo situato sotto la superficie dell’acqua. Il suo allevamento, da sempre diffuso nelle campagne, viene facilitato dalla sua rusticità e, spesso, dalla capacità di allevare da solo grosse nidiate di paperi. Un’altra razza domestica è l’Anatra muta o di Barberia, nota per la produzione di una carne di eccellente qualità.
il Pollaio
L’Asino, un animale prezioso
La storia dell’uomo è sempre stata accompagnata dalla presenza degli animali. I primi ad essere allevati, circa undicimila anni fa, furono gli animali da carne, come caprini e bovini. In tempi successivi, quando l’uomo iniziò a spostarsi ed ad attivare scambi commerciali, avvenne l’addomesticamento degli animali da lavoro e da soma: tra questi vi era anche l’asino di cui è stato ritrovato in Egitto il più antico reperto fossile risalente a seimila anni fa. Discendente con molta probabilità dall’Equus asinus africanus, si è poi diffuso in Siria, Mesopotamia, Persia, Tibet e in tutta l’Asia, come dimostrano le due specie affini l’Onagro e l’Ermione, giugendo in Europa durante il Neolitico.L’asino (Equus asinus domesticus), infatti, grazie alla resistenza e alla innata docilità è da sempre stato impiegato in agricoltura, risultando più a buon mercato rispetto al cavallo e anche più adatto a sopportare le fatiche dei lavori nei campi e come mezzo di locomozione. Grazie alla sua adattabilità alle più svariate
condizioni ambientali e alla facilità del suo allevamento, era assai diffuso nelle piccole aziende e presso molte famiglie rurali. Veniva adoperato per il tiro dei carri, per la sella, per il lavoro agricolo, per azionare le macine dei mulini e per il basto oltre che per trasportare, anche su terreni di grande pendenza e difficilmente percorribili, sacchi di castagne e carichi di vario genere. Anche ad Apella ogni famiglia aveva almeno un asino che custodiva gelosamente in vista soprattutto dei lavori autunnali come la raccolta delle castagne e il loro trasporto agli essicatoi e ai mulini, sempre ben distanti dai castagneti che sisviluppano sulle pendici dell’Appennino. L’assenza di un asino in una famiglia di contadini significava una mancanza grave come ricorda questo detto: “non c’è somaro più somaro di un contadino senza somaro”.
In tempi recenti, trascurato se non dimenticato, a causa della progressiva meccanizzazione dell’agricoltura, l’animale ha perso il suo antico impiego; alcune razze risultano oggi scomparse. Tuttavia, in questi ultimi anni l’asino è stato al centro di una riscoperta economica e sociale, riacquistando prestigio grazie ai nuovi impieghi complementari e connessi all’agricoltura e al turismo come “l’asinoterapia” , nell’ambito della più vasta “per therapy” , il turismo sostenibile, come passeggiate e trekking, e l’animazione. Secondo dati recenti della Coldiretti, nel nostro paese sono allevati più di 5000 esemplari di otto specie diverse (Amiatina, Asinara, Grigio Siciliano, Martina Franca, Pantelleria, Romagnola, Ragusana e Sarda). L’asino è soprattutto un animale molto curioso che si avvicina per verificare tutto ciò che vede, talvolta spinge, annusa e morde al punto di sembrare anche invadente. Tendenzialmente socievole, non gradisce stare da solo per lungo tempo: preferisce le compagnie di altri asini, ma si lega anche a cavalli, pecore, cani, oche e anatre. Talvolta l’asino può apparire disobbediente, ma spesso si tratta solo di cautela e timore: di fronte a situazioni nuove ha bisogno di calma e di tempo per essere sicuro di non andare incontro a pericoli. Altre volte la disobbedienza è un atteggiamento che l’asino esprime per essere più considerato o assistito. Il raglio, molto più frequente nei giovani esemplari, manifesta il suo stato di malessere: indica situazioni di disagio o quando soffre di solitudine. Possiede una buona memoria sia nei confronti dell’uomo che di altri animali e luoghi ricordando facilmente premure, cortesie, maltrattamenti e punizioni. L’asino è un animale pulito e questo viene manifestato dalla sua necessità di rotolarsi a terra, tipica tra l’altro degli equini. E’ questo l’unico modo che ha di liberarsi dai parassiti del pelo e della pelle. In cattività la vita media di un asino si aggira sui 30-35 anni e può arrivare anche a 45 anni.
Asino dell’Amiata
Di origine toscana, è particolarmente diffuso nel comprensorio dell’Amiata (Grosseto) dove è conosciuto anche con il nome di “sorcino crociato”. Può essere allevato per l’utilizzo da soma, tiro leggero e servizio. La forma snella e la particolare resistenza lo rendono adatto allo sfruttamento di zone marginali. Mantello grigio con caratteristiche zebrature agli arti, orecchie con orlatura scura, muso e ventre grigio chiaro, testa proporzionata, orecchie diritte, collo muscoloso, spalla robusta e diritta, groppa spiovente, petto aperto e torace ampio. Arti di dimensione ridotta e forti, piede robusto con unghia compatta. L’altezza al garrese è di 130-140 cm nei maschi, 125-135 cm nelle femmine. Caratteristica è la croce di Sant’Andrea formata dalla riga che va dal collo alla coda e da quella che scende lungo le spalle. Nella tradizione popolare e religiosa cristiana, questa caratteristica è stata collegata alla vita di Gesù che è frequentemente scandita dalla presenza dell’asino: un asino lo riscalda nella grotta, un asino lo trasporta durante la fuga in Egitto, un asino lo trasporta trionfante in Gerusalemme e proprio da quest’ultimo episodio la tradizione vuole che l’asino porti sulla schiena la tipica croce nera.
L’Asino, un animale prezioso
Il mondo delle Api
L’ape è un insetto sociale che vive in una colonia chiamata alveare. L’apicoltore offre alle api, in cambio dei loro prodotti, una casa, detta arnia.Le api svolgono un ruolo fondamentale non solo per la produzione di miele, pappa reale, propoli e cera, ma anche in termini di impollinazione. L’apicoltura è infatti definita dalla legislazione italiana come attività di interesse nazionale per la conservazione dell’ambiente naturale, dell’ecosistema e dell’agricoltura in generale. All’interno dell’alveare la vita si svolge tutta sui favi che sono costruiti interamente dalle api con una sostanza da loro secreta chiamata cera. Sono disposti in senso verticale, paralleli l’uno all’altro, e distano tra di loro giusto lo spazio per permettere il passaggio di due api. Il favo è formato da centinaia di cellette esagonali che servono per accogliere le uova e le larve, la covata, disposta nella parte centrale del favo, il miele ed il polline nelle zone superiori e laterali.
Una famiglia è costituita da almeno 10.000 api durante il riposo invernale, e da 30.000 a 60.000 nel periodo di attività. L’ape regina è l’unica femmina fertile, si distingue dalle altre api per l’addome più lungo e voluminoso (lunghezza totale 18-20 mm), può vivere fino a 4 o 5 anni . Il suo compito è quello di deporre le uova. Nel pieno della buona stagione essa ne può deporre fino a duemila in un giorno: deporrà un uovo fecondato nelle celle di dimensioni normali che darà origine ad una femmina, e un uovo non fecondato nelle celle più grandi da cui nascerà un maschio. L’uovo si schiude dopo tre giorni e ne nasce una piccola larva che viene nutrita per i primi tre giorni con la gelatina reale e poi con polline e miele. La pappa reale viene secreta dalle ghiandole ipofaringee e mandibolari delle api nutrici. Dopo 21 giorni dalla deposizione dell’uovo la giovane ape rompe con le mandibole l’opercolo di chiusura per uscire finalmente dalla celletta.
Il fuco, lungo circa 15 mm, è il maschio e non possiede il pungiglione. Il suo compito è quello di fecondare la regina, vive all’incirca una stagione. L’operaia, lunga circa 12-13 mm, è una femmina sterile. Nell’alveare ne possiamo contare qualche decina di migliaia, vive circa 40 giorni d’estate, sopravvive all’inverno durante la brutta stagione. Il suo corpo è estremamente versatile infatti essa compie nell’arco della vita tutti i lavori necessari alla famiglia, dall’alimentazione delle giovani larve e della regina, alla pulizia delle cellette, alla trasformazione del nettare in miele, alla costruzione dei favi, e alla raccolta all’esterno di tutto il necessario per la vita dell’alveare: acqua, nettare, polline e propoli. Il nettare viene “succhiato” con la ligula dal calice dei fiori per essere immagazzinato nella “sacca melaria” e trasportato all’alveare. Il polline viene raccolto dall’ape sugli stami, la parte maschile dei fiori, utilizzando le mandibole per poi essere impacchettato e trasportato sulle setole delle zampe posteriori dette “cestelle”. Le bottinatrici raccolgono inoltre sulle foglie delle piante le secrezioni zuccherine prodotte da alcune specie di insetti, la cosiddetta melata, e dalle gemme una resina, la propoli, che impiegano per sigillare ogni fessura presente nell’alveare. Il miele deriva dal nettare dei fiori che esse bottiano, trasformano, combinano con sostanze specifiche proprie, immagazzinano e lasciano maturare nei favi dell’alveare ottenendo un prodotto di altissimo valore alimentare.
Il mondo delle Api
La pecora zerasca e la pecora massese
La pecora (Ovis aries) è un mammifero della famiglia dei bovidi, genere Ovis. Si tratta di un animale addomesticato in epoca antichissima, diffuso attualmente in ogni continente. Vive principalmente in greggi per gestire i quali l’uomo si affida spesso a cani pastore. Il nome pecora (lat. pecorino “bestiame di piccolo taglio”) è riservato all’adulto femmina, il maschio ndella specie si chiama ariete o montone, mentre il piccolo è denominato agnello fino ad un anno di età. Il suo aspetto è molto vario nelle numerose e diverse razze, in particolare l’altezza varia, al garrese, fra 70 e 130 cm. Le corna possono essere presenti in entrambi i sessi oppure anche mancare. Le femmine hanno due mammelle inguinali e sono sessualmente mature verso 10-12 mesi; la gestazione dura circa cinque mesi e i parti sono spesso gemellari. La durata della vita può oscillare tra i 12 e i 15 anni. Il mantello, o vello, è costituito da peli sottili e increspati (borra) e da altri più lunghi, duri e rigidi (giarra) che insieme formano la lana, impiegata fin dalla antichità come fibra tessile dopo tosatura del vello, generalmente effettuata ogni anno a fine primavera, e di diversa qualità a seconda della razza dell’animale. La pecora viene allevata anche per produrre il latte e per la carne. Il latte è impiegato soprattutto per la produzione del formaggio pecorino e della ricotta. La pelle di pecora, con il suo caratteristico vello, è stata tra i primi indumenti dell’uomo ed è ancora presente in alcuni capi di abbigliamento rustico, come la mastruca che fin dal secolo XVI rappresenta l’indumento dei pastori sardi ed è costituita da una lunga giacca senza maniche in pelle di pecora o capra che oltre a proteggere dal caldo è impermeabile all’acqua.
La pecora e l’agnello di Zeri
In Lunigiana, nel territorio di Zeri, in provincia di Massa Carrara, esiste da tempi immemorabili una razza ovina autoctona, la Zerasca. A causa del secolare isolamento di quest’area, la razza è riuscita a mantenere intatta nel tempo le sue caratteristiche. E’ una pecora rustica, di taglia medio grande, con la testa proporzionata, ha manto bianco e di solito corna ben sviluppate. Il latte è richissimo di elementi nutritivi: il contenuto in proteine è superiore ad ogni altra razza ovina. Alla pecora il latte occorre solo per allevare gli agnelli, poiché in questa razza è stata privilegiata l’attitudine a produrre agnelli da carne. Gli animali sono al pascolo tutto l’anno, tranne durante la cattiva stagione. In questo territorio il pascolo è praticamente biologico e di notevole estensione e ciò è dovuto al fatto che a Zeri si perpetuano ancora gli usi civici e le proprietà collettive, antiche forme di gestione della proprietà dei pascoli che risalgono ad epoca pre-romana. Oggi esistono più di tremila capi di pecora Zerasca, molti sono gli allevatori locali, con area di produzione estesa ormai a più comuni, di cui parecchie giovani donne, che hanno puntato su questa razza anche in considerazione del fatto che il suo agnello può essere annoverato tra i gioielli gastronomici del nostro Paese, con una carne straordinaria, dolce la palato, molto tenera e profumata, senza alcun sentore di selvatico. La preparazione più tradizionale è l’agnello cotto nei tipici testi di ghisa. Nel 2001 è nato il “Consorzio per la valorizzazione e la tutela dell’agnello di Zeri” con un disciplinare rigoroso impegnato nella valorizzazione
di tutta la filiera culturale legata all’allevamento di questa razza, compresa la riscoperta di un tessuto dello la “mezzalana” con ordito di canapa e lana, tessuto tipico dell’abbigliamento popolare lunigianese.
La pecora di razza massese
La pecora massese è una razza ovina autoctona originaria della città di Massa e precisamente delle zone di Forno.L’esistenza di greggi di questi ovini che pascolavano sulle pendici delle Apuane è testimoniata da molti documenti, a questo proposito si riporta la citazione di Niccolò Macchiavelli che nella sua opera “La vita di Castruccio Castracani” parla di liti tra gli abitanti di Vinca e i pastori di pecore massesi per l’utilizzo non autorizzato dei pascoli. Dalla zona di forno l’allevamento della pecora massese si diffonde poi nella piana massese. La transumanza effettuata dai pastori nel periodo estivo, quando abbandonavano le zone pianeggianti per andare al pascolo in montagna, contribuisce alla diffusione della razza nelle zone appenniniche circostanti espandendosi così l’allevamento della pecora massese in Lunigiana, nelle provincie di Lucca, Pisa, Pistoia e Livorno, ed anche nelle regioni Liguria ed Emilia Romagna. Oggi la consistenza di questa razza è stimata in più di 60000 capi e rappresenta per consistenza numerica la terza razza ovina da latte italiana. Caratteristiche morfologiche di questa razza sono il colore nero del mantello e le corna: unica razza italiana in cui tutte le femmine hanno le corna. E’ classificata come razza da latte, anche se non è disprezzabile la produzione di carne. L’agnello viene allevato per circa un mese ed è macellato quando raggiuge il peso vivo di circa 15 kg, è alimentato esclusivamente con latte della madre. Dopo l’allontanamento dell’agnello la pecora viene munta e con il latte vengono prodotti formaggio e ricotta. E’ un latte molto ricco con una resa del 20%, una pecora massese produce sui 150 litri di latte per lattazioni di 120 giorni. E’ stato istituito un comitato di valorizzazione per “Agnello di latte di razza Massese” per il quale si intende l’animale nato e cresciuto nelle aziende della provincia di Massa Carrara che allevano ovini di razza Massese. La carne deve essere ottenuta da soggetti di pura razza Massese iscritti al Libro Genealogico, di età compresa tra i 20 e i 40 giorni con un peso vivo alla macellazione tra gli 8 e i 15 kg. L’allevamento della pecora è di tipo brado (solo pascolo) o semibrado (parziale integrazione alla stalla con cereali OGMfree ma sotto il 50% della razione, non sono ammessi mangimi industriali ed insilati) . L’unico alimento dell’agnello è il latte materno.
La Pecora zerasca e massese
I Piccoli Frutti
Il sottobosco è un luogo ricco di tesori spesso sconosciuti, qui dove il sole arriva ad accarezzare il muschio e le felci, e tutta la vegetazione forma un tappetto compatto da cui si alzano piccoli arbusti, a volte dimenticati, o troppo trascurati, i frutti di bosco: mirtillo, lampone, ribes rosso e ribes nero, rovo di bosco, uva spina, fragolina che con l’abbandono del territorio rischiano di scomparire sebbene la semplicità delle cure colturali, la durata dell’impianto e la prospettiva di interventi antiparassitari minimi ne dovrebbero stimolare la coltivazione, anche allo scopo di diversificare le colture e avere così una valida alternativa alla “frutta maggiore”. Mirtilli e lamponi sono presenti allo stato spontaneo nella flora di tutta la zona montana e collinare d’Italia, mentre il rovo infesta spesso, come arbusto selvatico, i terreni abbandonati e i margini dei corsi d’acqua di tutto il territorio nazionale. Solo i diversi tipi di ribes e l’uva spina sono più rari allo stato spontaneo ma è facile trovarli nei giradini come arbusti ornamentali per il loro gradevole portamento. Trattandosi di specie che necessitano in genere di scarsi trattamenti antiparassitari, se non addirittura nulli come nel nostro caso, sono perciò adatti ai bambini per i quali risultano essere un ricostituente naturale di primissimo piano. Recenti studi di laboratorio hanno, infatti, messo in evidenza come fragole e piccoli frutti contengano sostanze molto importanti dal punto di vista nutrizionale, ossia i composti polifenolici dalle proprietà antiossidanti, che sono presenti in percentuale molto elevata sopratutto nelle specie selvatiche.
Mirtillo (Vaccinium SPP.)
Piccolo arbusto a foglie caduche, originario dell’Europa settentrionale, cresce spontaneamente in tutte le zone temperato-fredde dell’emisfero boreale. Appartiene alla famiglia delle Ericacee. L’origine montana delle specie spontanee richiede la presenza di terreni molto freschi e organici e a pH acido (4-5). Presenta fusti sotterranei, foglie piccole, ovali o lanceolate, di colore verde brillante che assumono colorazioni giallo-oro o rossastra in autunno; in primavera inoltrata produce piccoli mazzetti di fiori campanulati, lievemente cerosi, di colore bianco. All’inizio dell’estate o all’inizio dell’autunno, a seconda della specie, maturano i frutti tondeggianti, che sono delle piccole bacche ricoperte da uno strato di pruina che le rende opache, di colore nerastro (V.myrtillus), rosso (V. vitis idaea) o blu (V. uliginosum), o bacche di dimensioni più grosse e raccolte in grappoli tipiche del mirtillo gigante americano (V. corymbosum). In generale i mirtilli maturano in successione, nell’arco di 3-4 settimane. Questi frutti sono molto apprezzati da consumare freschi o in confettura, sia per marmellate, sciroppi, grappe dal sapore delicato e dall’aroma intenso, e vengono utilizzati sia in erboristeria che nell’industria farmaceutica, essendo ricchi di vitamine e di flavonoidi. Il mirtillo, infatti, contiene discrete quantità di acidi organici (citrico, malico…), zuccheri, pectine, tannini, mirtillina (glucoside colorante), antocianine, vitamina A, C e in quantità minore vitamina B. In particolare, si sottolineano le proprietà favorevoli delle antocianine sui capillari della retina e sui capillari in generale. Il frutto è indicato inoltre come antisettico urinario e, soprattutto se essicato, ha proprietà astringenti e può essere utilizzato come antidiarroico,come veniva consigliato da Dioscoride (I secolo d. C.) per curare la dissenteria.
Lampone (Rubus SPP.)
Insieme al rovo appartiene alla famiglia delle Rosacee. Le varietà di lamponi sono coltivabili in ogni ambiente climatico italiano e richiedono terreno fresco, organico, tendenzialmente acido. E’ una specie che fruttifica scalarmente in giugno, luglio e agosto. La pianta è un cespuglio di 70-80 cm di altezza (ma può raggiungere anche i due metri di altezza) che ogni anno sviluppa alla base della ceppaia e dalle radici numerosissimi germogli il cui rigoglioso sviluppo nel tempo può rendere la pianta infestante ma consente così una durata pressoché illimitata della coltivazione. I fiori, bianco-rosati, sono riuniti in grappoli radi e il frutto è rappresentato da numerose piccole drupe rosse dal sapore dolce-acidulo molto apprezzato negli impieghi alimentari. Il lampone infatti può essere utilizzato nella preparazione di confetture, sciroppi, e gelatine e nel settore liquoristico. Come erba medicinale, il lampone può essere usato come diuretico e colagogo. L’infuso di foglie è utile contro la diarrea. I principi attivi contenuti nella pianta sono i tannini, la vitamina C, il flavone e acidi organici.
Rovo (Rubus SPP.)
Universalmente diffuso nei luoghi più impervi, il rovo spontaneo (Rubus) assume aspetto decisamente differente a seconda della specie (ne esistono più di 40) e in generale si presenta come un arbusto con tralci molto lunghi e con una elevata capacità pollonifera. Il rovo coltivato, ottenuto per selezione, presenta frutti più grossi e si distingue in varietà striscianti e spinose e varietà a sviluppo verticale senza spine. I fiori, di colore bianco rosato, sono riuniti in infiorescenze terminali e come nel lampone, il frutto è formato da numerose drupeole di colore rosso o nero che però a maturità non si distaccano dal ricettacolo e devono essere raccolte con il gambo. La produzione di frutti inizia a metà di giugno e prosegue per tutta l’estate. L’aroma intenso e gradevole ed il colore nero brillante fanno della mora un ingrediente prezioso per molte preparazioni come marmellate oltre che per un consumo fresco. Il decotto di foglie di rovo è un efficace astringente e si può usare anche come lozione per il viso o contro le affezioni della bocca.
Fragola di bosco (Fragaria vesca)
Si tratta di un arbusto della famiglia delle Rosacee. Spontanea nei boschi è coltivata per i suoi profumati frutti: piccole fragole dall’aroma delicato e intenso allo stesso tempo. Si distingue dalle varietà ibride coltivate di Fragaria per il fatto che il frutto è piccolo e morbido (da cui il nome vesca che in latino significa molle). Secondo alcune fonti il nome fragaria deriva dal sanscrito ghra il cui significato è fragranza. Nella tradizione popolare è impiegata per alleviare distrbi gastrointestinali. I principi attivi contenuti nella pianta sono olii essenziali, tannino e flavone. Contiene buone dosi di vitamina C, di iodio, di ferro e di calcio.
Uva spina (Ribes grossularia)
Appartiene alla stessa famiglia e allo stesso genere del ribes nero e rosso e presenta analoghe esigenze di coltivazione. Forma cespugli più aperti e i rami, come dice il nome, sono provvisti di aculei. I frutti sono bacche grandi di colore bianco verdastro o giallo miele o rosse. La coltivazione dell’uva spina risale al 1700 in Inghilterra da cui si diffuse ben presto in altri paesi europei. L’uva spina gode di azione diuretica e lassativa blanda e nella tradizione popolare è consigliata ai sofferenti di dolori reumatici e gotta e contro le infiammazioni del cavo orale.
Ribes (Ribes SPP.)
Appartiene alla famiglia delle Sassifragacee. E’ un arbusto perenne costituito da cespugli che nel mese di luglio si ricoprono di grappoli di frutti neri (R. nigrum) o rossi (R. rubrum) a polpa dolce-acidula acquosa, con numerosissimi semi piccolissimi. Il ribes rosso gode di azione diuretica, rinfrescante e lassativa blanda. I frutti si utilizzano al naturale, sotto forma di succo, gelatina, sorbetti, liquori e per guarnire piatti dolci e salati.
I piccoli frutti
Il Giardino delle Erbe
Alle erbe officinali e aromatiche va riconosciuto un ruolo vitale nel migliorare le produzioni agricole, la disponibilità di cibo e la conservazione della biodiversità dell’ambiente: numerose fonti storiche attestano che tali erbe erano conosciute fin dalla antichità, in particolare per le proprietà antisettiche e di aromaticità per gli usi in cucina. La terra di Lunigiana è ricchissima di piante ed erbe spontanee commestibili e di interesse medicinale e aromatico, spesso adoperate nella preparazione dei gustosi piatti della tradizione culinaria del territorio, come la caratteristica “torta d’erbi”. Nel Bioparco è possibile incontrare una raccolta selezionata di molte delle piante aromatiche e officinali oggi conosciute, gran parte autoctone, come borragine, maggiorana, tarassaco, rosmarino, timo elavatico, salvia selvatica, e ancora melissa, erba cipollina, camomilla, finocchio selvatico, iperico e lavanda. A seguire alcune di queste.
Erba cipollina (Allium Schoenoprasum)
Pianta originaria dell’Asia, della famiglia delle Liliacee, ha una spiccata capacità di rigermogliare se soggetta ad un continuo e costante prelievo di foglie. Forma piacevoli cespuglietti di foglie in mezzo ai quali nella stagione estiva spuntano numerosi capolini rosa-porpora. E’ spesso utilizzata anche come specie ornamentale per bordure e giardini rocciosi. In cucina viene usata per isaporire le insalate e da molti è preferita alla cipolla per la maggior delicatezza del suo aroma.
Borragine (Borrago officinalis)
La pianta è originaria dell’area mediterranea dove cresce tuttora in forma spontanea. Viene coltivata in tutte le regioni temperate del globo. Il nome deriva dal latino “borra” (tessuto di lana ruvida) per la peluria che ricopre le foglie. Altri lo fanno derivare dall’arabo “abu araq” attraverso il latino medievale “borrago” forse, per le proprietà sudorifere della pianta. I fiori che presentano cinque petali di colore blu-viola, disposti a stella, sono penduli e di breve durata. Le foglie giovani sono variamente impiegate in cucina: in insalate, minestroni, come ripieno di tortelloni. Nella medicina popolare vengono usate le foglie e le sommità fiorite per abbassare la frebbe e calmare la tosse.
Lavanda (Lavandula)
Pianta originaria delle regioni mediterranee, è coltivata , in particolare nelle zone aride e sassose, e conosciuta fin dai tempi più antichi per le sue proprietà antisettiche, analgesiche, battericide, vasodilatatorie, antinevralgiche, per i dolori muscolari ed è considerata un blando sedativo. Molte sono le specie di lavanda, oltre agli ibridi ed alle varietà orticole. I fiori di lavanda, presenti da giugno a settembre, contrariamente a tante altre specie, conservano a lungo il loro aroma anche se secchi. L’olio essenziale è un profumo molto apprezzato. Nell’antichità la pianta veniva usata anche per la preparazione di talismani e portafortuna, legati a pratiche magiche ed esoteriche.
Menta (Mentha Piperita)
Pianta originaria del Nord Europa, anche se si ritiene derivante da ibridazioni fra specie diverse, si adatta molto bene a climi diversi, prediligendo le posizioni semiombreggiate e terreni freschi, profondi e ben concimati. Il genere Mentha comprende una quarantina di specie che pjresentano caratteristiche simili e vengono tutte usate in cucina e in erboristeria. L’olio essenziale presente in tutte le specie è il mentolo che viene impiegato per la preparazione di sciroppi e nell’industria cosmetica.
Maggiorana (Origanum Majorana)
Pianta conosciuta già dagli antichi Greci per le sue proprietà aromatizzanti e medicamentose, predilige climi temperato-caldi, presentando portamento strisciante senza superare i 50 cm di altezza. I fusti che producono numerosissime ramificazioni sono pelosi nel periodo giovanile mentre le foglie sono piccole e ovaliformi con infiorescenza formata da pannocchie biancastre. Le foglie e le sommità fiorite si raccolgono nella stagione estiva, inoltre le ramificazioni possono essere essicate all’ombra e conservate in vasi di vetro scuro e utilizzate in inverno. La maggiorana è infatti uno dei principali “sapori” della cucina mediterranea, usata per aromatizzare torte salate, frittate e grigliate di carne e pesce, oltre che impiegata spesso in infusi contro l’insonnia.
Origano (Origanum volgare)
Pianta orientale cresce spontaneamente nelle regioni mediterranee prediligendo i climi temperati caldi e soffrendo il gelo, adattandosi ad ogni tipo di terreno, purchè ben drenato ed esposto in posizione soleggiata. La pianta raggiunge i 60-70 cm di altezza e presenta fusti con le sole foglie (che sono glabre, piccole e ovaliformi) e altri con i fiori (che possono essere bianchi o rosa). Il vasto impiego di questa specie è legato al gradevole profumo che caratterizza molti piatti della cucina mediterranea come la classica pizza. Viene però usata anche nella conservazione dei cibi e in genere nell’industria alimentare.
Rosmarino (Rosmarinus officinalis)
E’ un arbusto sempreverde tipico del bacino mediterraneo può raggiungere anche i due metri di altezza e svilupparsi in modo orizzontale, le folgie sono coriacee e aghiformi, i fiori presentano corolla azzurra. Il nome rosmarino sembra che derivi dal latino rhus marinus, cioè rugiada di mare. Nel Medioevo era considerata una pianta della salute, panacea per ogni tipo di male. oggi il suo utilizzo è ridimensionato ma in cucina è il principale aromatizzante degli arrosti e rientra nella preparazione di molti piatti.
Salvia (Salvia officinalis)
Si tratta di un arbusto sempreverde di aspetto cespuglioso e con ramificazioni semierbacee, tipico dell’area mediterranea. Le foglie sono lungamente picciolate, molto pelose e con lamina ricca di nervature sottili che le conferiscono un aspetto a mosaico. L’infiorescenza violacea è terminale. Le virtù curative della salvia sono state confermate anche dalla scienza moderna, che ha riconosciuto le sue proprietà stimolanti, antinfiammatorie e antisettiche. In cucina le foglie sono usate per aromatizzare arrosti e carni.
Timo (Thymus vulgaris)
Arbusto di dimensioni ridotte (non raggiunge i 30 cm di altezza), tipico del bacino del Mediterraneo, si adatta molto bene anche in ambienti freddi e montani in presenza di terreni calcarei ben drenati e per le ridotte dimensioni delle foglioline lanceolate viene spesso impiegato nei giardini rocciosi e come pianta tapezzante. La raccolta del timo può partire dal momento della fioritura verso il mese di maggio e proseguire per tutta l’estate tagliando le ramificazioni erbacee che possono essere conservate, previa essicazione all’ombra. Nell’antica Grecia era una pianta sacra a Venere e a Marte. Le foglie e i fiori contengono un olio essenziale denominato timolo che ha notevoli proprietà battericide, antimicotiche, antisettiche e antiparassitarie. In cucina è usato come aromatizzante, da solo o con altre essenze.
Le erbe officinali
L’orto dei Frutti Dimenticati
Per “frutti dimenticati” si intendono quelle produzioni arboree frutticole quali nespola, sorba, pera volpina, mela cotogna, corbezzolo, corniolo, melograno, prugnolo ed altre, ottenute in prevalenza in aree marginali collinari, che in passato erano diffusamente conosciute e utilizzate dalle popolazioni locali nell’ambito di un’economia agricola di autosussistenza, all’interno di un utilizzo poco più che familiare, e che oggi raramente vengono ancora coltivati. Attualmente, infatti, dato il modificarsi delle modalità produttive agricole rivolte soprattutto al mercato, questi frutti rischiano la vera e propria estinzione e con questo il perdersi di tradizioni culturali e culinarie tipiche della dimensione contadina. L’arte di coltivare queste piante è un’antica pratica tramandata di generazione in generazione, in un agro-ecosistema particolarmente adatto alle coltivazioni arboree montane, favorite da un clima asciutto, da una forte intensità e qualità di radiazione solare, dall’escursione termica diurna/notturna, da copiose rugiade, da un’ottima impollinazione. L’emigrazione e il frazionamento eccessivo dei terreni ha permesso lo sviluppo di una “frutticoltura familiare”: le piante venivano coltivate quasi naturalmente prediligendo quelle a fusto medio-alto per consentire la coltivazione contemporanea di cereali, legumi e foraggio. Ogni contadino custodiva gelosamente le proprie varietà, locali o provenienti da luoghi lontani di emigrazione e dalle valli vicine, contribuendo così a selezionare un patrimonio straordinario di biodiversità. Il progressivo allontanamento dalla campagna ha lasciato queste coltivazioni in uno stato di abbandono che ha messo a rischio la ricchezza genetica dei nostri campi. Il patrimonio locale, frutto di tanto lavoro da parte di generazioni di contadini, va salvaguardato e valorizzato per impedirne la scomparsa: da questo nasce il progetto di realizzazione di un parco dei “frutti minori”, un percorso fatto di colori, profumi e sapori “d’na vota” alla riscoperta delle antiche varietà. Alcune di queste varietà sono di seguito descritte con una sintesi sulle principali caratteristiche.
Corbezzolo (Arbutus unedo L.)
Arbusto tipico della macchia mediterranea, è di grande importanza forestale per la grande facilità con cui ricresce dopo gli incendi. La presenza contemporanea in autunno dei fiori dal colore delicato e dei frutti rosso vivo sulle foglie verdi ne hanno fatto la pianta nazionale durante il Risorgimento. Nei tempi passati le foglie di corbezzolo essendo ricche di tannini venivano usate per la concia delle pelli. Come suggerisce il nome scientifico unedo, dal latino “unum edo” ne mangio uno, non si può eccedere nel consumo dei frutti in quanto indigesti e lassativi. Se ne preparano comunque ottime marmellate , gustosi canditi e grappe. Ottimo e pregiato anche il miele di corbezzolo per il gradevolissimo sapore amarognolo.
Corniolo (Cornus mas L.)
Arbusto amante dei terreni calcarei, il corniolo è riconoscibile in primavera per la vistosa e precoce fioritura gialla, e in estate, per i frutti di colore rosso vivo. Come il sambuco è una pianta dai mille usi noti dai tempi più antichi. Il nome latino cornus ne evoca la durezza del legno, impiegato in passato per fabbricare le aste di lance e frecce. La corteccia era nota anche per le proprietà astringenti. I frutti che si raccolgono in agosto e settembre, quando assumono un colore rosso scuro, erano utilizzati sia freschi che sotto forma di marmellate e sciroppi. Particolari le “olive di corniole” ottenute conservando in salamoia i frutti quando iniziano a maturare.
Nespolo (Mespilus germanica L)
Arbusto originario dell’Asia Minore, cresce spontaneo nei nostri boschi ormai da tempi remoti. I suoi frutti, “nespoline”, si raccolgono in autunno ed hanno un potere leggermente astringente e diuretico. Considerate già dai greci e romani una leccornia, nelle nostre campagne le nespoline venivano raccolte acerbe e conservate in luogo fresco e asciutto su uno strato di foglie a “marcire” , ovvero a subire un processo di fermentazione naturale che ha inizio subito dopo la maturazione e che le rende più dolci e morbide.
Prugnolo (Prunus spinosa L.)
E’ un arbusto spinoso con il fusto ampiamente ramificato. Cresce spontaneo nei boschi ed in passato veniva utilizzato per formare siepi di confine. E’ facile vedere tra i suoi rami nidi di uccelli che protetti dalle spine nidificano indisturbati. I fiori e la corteccia sono dotati di proprietà astringenti e antinfiammatorie, i frutti sono impiegati per fare marmellate e liquori dal piacevole aroma, ma sono molto aciduli anche maturi. Solo dopo i primi freddi diventano morbidi e piacevoli al palato.
Rosa canina (Rosa Canina L.)
La rosa canina è un arbusto cespuglioso diffuso su tutto il territorio. Particolarmente resistente si può trovare fino a 1500 m di altezza. Le sue bacche, ricche di vitamina C, si raccolgono in autunno per farne una deliziosa marmellata. Asciugate al sole e conservate in vasi di vetro consentono di preparare tisane che sono un utile e antico rimedio contro i raffreddori invernali. Tante leggende sono legate a questo arbusto. Nei paesi delle Alpi apuane si credeva, tra l’altro, che un rametto di rosa canina alla porta tenesse lontano il malocchio.
Sambuco (Sambucus nigra L.)
E’ un arbusto che predilige i luoghi umidi e ricchi di azoto, per questo è facile trovarlo tra le rovine delle case diroccate. Da secoli l’uomo ha familiarità con questa pianta della quale ha imparato ad utilizzarne tutto: da foglie, fiori e corteccia si ricavano i colori verde, lillà e nero, dal legno, tenero e facilmente lavorabile, vari utensili come piccoli pettini e cucchiai. In passato i ragazzi ne utilizzavano i rami per farne gli “stoppieti” ovvero piccoli ed economici fucili a stantuffo oppure rustiche sigarette. Note da tempo sono anche le proprietà medicinali: con infusi di fiori si curava la tosse, impacchi di fiori venivano applicati su scottature e foruncoli, un estratto delle radici veniva usato come purgante. In particolare i fiori, oltre ad avere un’azione antinevralgica, diuretica e lassativa, sono un ottimo ingrediente per sciroppi, marmellate, profumate frittate e frittelle.
Sorbo (Sorbus domestica L.)
Si presenta come arbusto alto al massimo 15 metri, molto longevo e a crescita lenta. Il suo legno, compatto e facilmente lucidabile, ha un buon uso in falegnameria. Cresce nei boschi dal mare alla zona sub-montana prediligendo i suoli calcarei. E’ conosciuto fin dalla antichità per i suoi frutti, le sorbe, che i Romani facevano fermentare insieme al grano ottenendo una bevanda alcolica simile alla birra, detta cerevisia. Nell’uso locale le sorbe vengono raccolte in autunno, disposte su uno strato di paglia a maturare, diventano commestibili solo quando, dopo alcune settimane, assumono un colore bruno.
L’orto dei Frutti Dimenticati
L’Orto biologico del “Prete”
Coltivato da generazioni di monaci, prima, di preti poi, questo terreno, originariamente di proprietà della Chiesa come l’antica Torre di Apella, delimitato da ben fatti muri a secco, oggi sapientemente ristrutturati sotto la indiscutibile maestria di Silvio Nardi di Taponecco, ha rappresentato una preziosa fonte di cibo in epoche in cui le piccole coltivazioni orticole e frutticole contribuivano insieme a poco altro a sfamare la gente del posto. In particolare, essendo in una zona di alta collina, orti come questo assumevano un’importanza talvolta maggiore di quella degli orti di pianura in riferimento non tanto alla diversità dei prodotti quanto alla distanza dai centri abitati e dalle rivendite di generi di prima necessità. Le precarie condizioni economiche rendevano gli orti familiari assieme ai piccoli allevamenti, una vera e propria ancora di salvezza per le famiglie di contadini che spesso vivevano ai limiti della povertà. Come ricordano gli anziani che ancora abitano all’Apella, Don Candido Vasini, l’ultimo prete che visse nella Torre (1952), che è stata fino agli anni ‘50 canonica della parrocchia di Santa Maria Assunta, era solito curare personalmente questo orto e nella stagione estiva concedersi un rinfrescante bagno nelle acque della sottostante vasca in pietra, usata anche come lavatoio per la biancheria, le cui acque di sorgente servivano inoltre per annaffiare le piante nei periodo di maggior siccità. La volontà di recuperare il terreno, per anni lasciato, insieme ai muri circostanti, all’incuria del tempo e ricoperto completamente di rovi, nasce dall’intento di realizzarvi un orto biologico, come quello di origine, in sè anche didattico, per la salvaguardia delle sementi antiche e del paesaggio, delle produzioni tipiche del territorio, del patrimonio di conoscenze gelosamente conservato dalla civiltà contadina e per stimolare i visitatori al consumo di cibi genuini. Cipolle, patate, agli, bietole, basilico, prezzemolo, zucche e zucchine, cavoli, fagioli, radicchi e granoturco rappresentano le varietà tipicamente coltivate a queste altezze, in grado di superare senza particolari accorgimenti le temperature invernali, e ancora oggi presenti negli orti di Apella.
Le patate di Zeri
Una popolare favola “Il diavolo e il contadino” illustra chiramente la condizione del mondo agricolo lunigianese in cui la patata, diffusasi molto tardivamente in Lunigiana, portò comprensibilmente sollievo alla fame, in alternativa alle farine (scarsa quella di frumento, povera quella di mais, fin troppo utilizzata quella di castagne). In particolare, quella di Zeri, la cui coltura fu introdotta nel 1777 da Biagio Grilli di Adelano e che oggi si coltiva ad un’altitudine elevata tra i 500 e i 1500 metri, è rinomata per le sue caratteristiche qualitative dovute alle tradizionali tecniche di produzione e all’utilizzo di concimi solo naturali come quello di pecora, successivamente alla semina. Questa coltivazione ha trovato nel clima montano e nella particolare composizione del terreno una condizione ottimale di sviluppo al punto che ad Apella nel 1908, scherzosamente, gli abitanti decretarono (come un documento ancora testimonia) la costituzione di una stato autonomo, il regno di Apella, definito appunto “pataccheria reale”. Ancora oggi Apella è considerata una terra da patate e i pochi contadini rimasti, oltre che la nostra azienda, sono in grado di produrre ogni anno significativi quintali di questo amato tubero.
La “Cipolla di Treschietto”
Appartenente alla specie Allium Cepa L., è ottenuta dalla coltivazione di un’antica varietà da sempre coltivata nel paese di Treschietto, a pochi chilometri da Apella, nel comune di Bagnone, e nelle zone limitrofe. Le caratteristiche che la rendono unica, oltre alla forma appiattita, il colore rosso rubino all’esterno e bianco con striature rosse nella parte interna, sono una consistenza tenera, carnosa e ricca d’acqua, ma soprattutto l’aroma marcato e la dolcezza del gusto poco pungente e gradevole. Si tratta di proprietà che ha conservato nei secoli grazie al tradizionale isolamento del paese, raggiungibile con stade carrozzabili solo dopo il 1950. Un gran numero di piccoli produttori garantisce tutto il ciclo produttivo attraverso metodi naturali e tradizionali di riproduzione del seme e di coltivazione. I bulbi selezionati a luglio e conservati al buio nelle cantine, a ottobre sono piantati e concimati. Nel marzo successivo si rincalzano, a luglio si raccolgono i fiori e si fanno essicare all’ombra per una settimana. I fiori essicati vengono sfregati manualmente per poter estrarre il seme, immerso successivamente in acqua. Solo i semi che rimangono sul fondo sono di buona qualità per cui idonei alla semina che si effettua in luglio, a settembre si trapiantano le piantine, a maggio si raccolgono manualmente le cipolle in erba e in estate quelle mature. Grazie a questo gusto dolce, la cipolla di Treschietto si presta alla preparazione di ottimi piatti, quali zuppe e torte salate come la “Barbotta” o “Scarpacciana”.
Il “Fagiolo di Bigliolo”
Il fagiolo di Bigliolo ha caratteristiche che lo rendono unico e per questo vanto di un paese, Bigliolo appunto, adagiato nel cuore della Lunigiana, a pochi chilometri da Aulla, terra di antiche tradizioni e crocevia di colture. Tenero, di buccia sottile, estremamente digeribile e delicato, deve le sue tipicità e eccezionali qualità alla tecnica di produzione, alle particolari varietà locali di fagiolo (sia del tipo borlotto che del tipo cannellino coltivati come il tondino, il borlotto di Bigliolo, il bianchetto e il due facce), alle favorevoli condizioni del terreno (molto fertile, ben drenato e povero di calcio), del clima e dell’acqua di irrigazione (poco dura) oltre che all’ottima esposizione a sud, ben soleggiata e riparata dai venti. Il seme si conserva di anno in anno ed è riprodotto dalle aziende stesse, così che nel tempo si è mantenuto intatto un grande patrimonio di biodiversità. Per lungo tempo è stato l’alimento di base della cucina bigliolese, tanto da essere definito “carne dei poveri” ma in realtà era presente anche nelle case di ricchi. Il 29 settembre del 1709 per esempio il notaio che stendeva l’inventario dei beni del Prete Cosimo Malaspina di Quercia, che con Bigliolo apparteneva la Marchesato di Olivola, elencava come beni preziosi “una pignatta di fagioli bianchi, un taschello con tre quarette di fagioli minuti e una grande abbondanza di fagioli secchi depositati in varie cantine”. Da sempre coltivato con amorevole cura, anticamente veniva seminato lungo i corsi d’acqua, solo successivamente con la pratica dell’irrigazione per scorrimento delle acque nei solchi si è avuto un incremento di produzione. La semina era fatta sulla “ristoppia” del grano, iniziando a lavorare il terreno solo dopo la raccolta del cereale, da San Giovanni (23 giugno) a San Pietro (30 giugno). E’ ottimo sia per la preparazione di minestroni che lessato e accompagnato con l’olio extravergine della Lunigiana.
Il “Cavolo nero di Toscana”
Già dai tempi dei Romani si coltivava un tipo di cavolo nero che probabilmente è il progenitore del famoso “Cavolo nero di Toscana” da sempre ben apprezzato e conosciuto. Si tratta di un cavolo di foglia in quanto dalle piante non si formano le teste ma di esse si utilizzano le singole foglie che sono oblunghe, piuttosto strette, increspate e di colore verde scuro. Per l’elevata rusticità e la notevole resistenza alle basse temperature può essere raccolto nei mesi autunnali e anche in pieno inverno per proseguire fino a primavera; come ben sanno i buongustai le foglie risultano più saporite e gustose proprio nei mesi invernali dopo le prime gelate. Le foglie, raccolte a partire dal basso, si consumano lessate e ben condite, e sono ingrediente indispensabile delle minestre, soprattutto della famosa “ribollita” toscana. Lasciando andare a fiore le piante, prima che i fiori stessi si aprano, si possono raccogliere le infiorescenze ottenendo un prodotto di ottima qualità gustativa.
L’Orto biologico del “Prete”